Come si vive a Procida?

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Se ti stai chiedendo come è vivere a Procida, te lo racconto io con alcuni aneddoti

Vivere a Procida è un’esperienza unica, come un viaggio temporale dove ritmi lenti e costumi radicati non sono mai stati soffocati dalla modernità impetuosa. Quest’isola piccola, un gioiello di quasi quattro chilometri quadrati nel Golfo di Napoli, ha un’anima che si divide tra l’introspezione invernale e l’effervescenza estiva.

Negli anni della mia infanzia e adolescenza, Procida era un rifugio estivo per le famiglie della Campania. Per due mesi, l’isola si riempiva di bambini che giocavano nei suoi vicoli stretti, tra le case color pastello che si riflettono sul mare. Era un tempo di pescatori, fruttivendoli che vendevano la loro merce per strada, di lunghe giornate al sole e di notti rinfrescate dalla brezza marina.

In inverno, invece, l’isola si ritraeva in sé stessa. La solitudine e la quiete invadevano le strade, la luce del giorno era breve e il buio diventava il manto sotto cui Procida riposava. Non era una tristezza, ma una pace, un ritmo lento e meditativo che ti permeava fino alle ossa. Per un procidano, l’inverno è un tempo di riflessione e riposo, di preparazione per la stagione che verrà.

D’estate, invece, il sipario si alza e la scenografia cambia. Le vie si riempiono di colori e suoni, di volti nuovi che arrivano da tutto il mondo, attirati dalla bellezza unica dell’isola e dalla sua fama crescente grazie alla manifestazione sulla Capitale della Cultura del 2022. Eppure, nonostante il flusso di turisti, Procida non perde la sua essenza.

Il procidano vive ancora alla sua maniera, legato alle tradizioni e alla terra. La cucina procidana è un perfetto esempio: non si è adattata alle mode della terra ferma, ma è rimasta genuina e radicata nelle sue origini. Si mangia il pesce fresco, appena pescato, e i prodotti locali. Il tempo qui si vive lentamente, senza fretta, perché la bellezza dell’isola non si può affrettare.

Il procidano può sembrare schivo, non “turistico” come potresti trovare in altri luoghi. Non è un personaggio costruito per accogliere i visitatori, ma un abitante autentico di un luogo che ama e rispetta. Se ti dà informazioni, lo fa non per cortesia forzata, ma perché gli piace condividere la conoscenza della sua isola.

E se vuoi conoscere l’essenza di Procida, leggi “L’isola d’Arturo”. Lo spirito di Arturo, selvaggio come quello di Wilhelm Gerace di Elsa Morante che vive ancora nei procidani: un amore viscerale per la propria terra, un attaccamento alle radici che non può essere scalfito dal turismo o dalla modernità.

Vivere a Procida per 25 anni è come essere parte di un quadro in continua evoluzione, dove il passato e il presente convivono armoniosamente, dove l’essenza dell’isola è impressa in ogni angolo, in ogni abitante. Un luogo dove il tempo sembra essersi fermato, ma continua a fluire lentamente, portando con sé storie, emozioni e ricordi indelebili.

La vita a Procida, quando ero piccolo, aveva un sapore di semplicità e di unione. Le famiglie erano numerose, spesso allargate a nonni, zii, cugini e ci si riuniva tutti insieme, creando una marea vivace di volti familiari e voci allegre. L’estate, in particolare, era il tempo delle grandi riunioni familiari, delle giornate trascorse in spiaggia, con il sole a disegnare ombre lunghe sulla sabbia.

Arrivavamo in spiaggia al mattino, carichi di tutto ciò che poteva servire per trascorrere una giornata intera al mare. Ognuno contribuiva con qualcosa: l’insalata di riso preparata dalla nonna, il pane e pomodoro – una vera delizia nelle giornate calde, le frittate fatte in casa e, naturalmente, il cocomero, fresco e succoso, l’indiscusso protagonista delle nostre estati.

Piazzavamo gli ombrelloni, creando una sorta di piccolo villaggio sulla spiaggia, un rifugio dal sole estivo. Poi, passavamo il resto della giornata tra bagni, giochi e chiacchiere, mentre la brezza marina ci accarezzava la pelle.

Nel pomeriggio, alcuni di noi si divertivano a pescare con il “boccaccio”, un contenitore in vetro nel quale si inseriva del pane per attirare i pesci. Era un’attività affascinante, un gioco che mescolava pazienza e aspettativa, con la speranza di vedere quei piccoli pesci nuotare nella trappola.

Ma il momento più emozionante era quando tiravamo tutti assieme lo “sciavichiello”, una rete a strascico che veniva gettata in mare. Formavamo una fila, ognuno afferrando un pezzo della rete, e iniziavamo a tirarla verso la riva, nell’attesa trepidante di scoprire che pesci avesse catturato. Era un’azione comunitaria, un rituale che ci univa e che riempiva di gioia e eccitazione quelle lunghe giornate estive.

Vivere a Procida era questo: l’unione delle famiglie, la condivisione dei momenti, la gioia delle piccole cose. Era il gusto dell’insalata di riso mangiata in spiaggia, la freschezza del cocomero nelle giornate calde, l’euforia di un pescato fortunato. Era un insieme di emozioni e ricordi che hanno plasmato la mia vita e che rimarranno sempre nel mio cuore.